Marzullo, 40 anni aspettando Carlos...
Bandiera del Senago, ma anche lanciatore dello United per 8 stagioni (è il 9° pitcher rossoblù per numero di strikeout, 344), Luca Marzullo si racconta a partire dal "misterioso" soprannome: "Me lo appiopparono i compagni, in attesa di un venezuelano che non arrivò mai. Quando ho smesso sono diventato pitching coach per restituire quello che il baseball mi ha dato, ma quest'anno da neopapà mi riposo. La mia miglior stagione proprio con la franchigia nel 2010: vinsi la coppa Italia di A2 lanciando con la febbre. Il momento più emozionante la lettera di convocazione nella Nazionale Ragazzi. Duarte il tecnico a cui devo di più, Bonetti il vero manager per come gestiva le persone. Cameroni, Mazzotti e Bianchi i simboli del baseball italiano: ho avuto la fortuna di conoscerli da vicino. Il futuro del baseball? Ci vorrebbe una London series..."

Aspettando Carlos. Se Samuel Beckett fosse stato di Senago, al posto di Godot avremmo avuto la storia di Luca Marzullo, nata da uno di quei tanti equivoci divertenti da cui possono cominciare le storie di baseball. Perché se Luca Marzullo a 40 anni è ancora per tutti Carlos, lo deve a quella strana attesa di tanti anni fa che molti non conoscono o hanno dimenticato. “Perché Carlos? – se la ride Luca – . E’ una storia che risale a tanti anni fa, al 2000, quando avevo 15 anni ed ero appena arrivato in prima squadra. Quell’anno il Senago faceva la serie B e girava la voce che sarebbe dovuto arrivare un italo-venezuelano fortissimo di cui si sapeva solo che si chiamava Carlos… Persino Faso, visto che l’Ares era nel nostro girone, ne aveva parlato nella sua rubrica su Radio Dj, creando questo clima di grande attesa. Peccato però che questo Carlos non si materializzò mai, mentre un giorno mi presentai io per la prima volta all’allenamento della prima squadra: così i vecchi del Senago, Luca Chiesa e gli altri, non sapendo chi fossi cominciarono a dire che ero Carlos…”.
E da lì Luca è diventato Carlos Marzullo, e lo è ancora oggi che soffia sulle prime 40 candeline. “Già, sono arrivato a 40 anni senza accorgermi. Con l’aggiunta che da sei mesi sono anche papà di una bambina, Linda. Un bel regalo arrivato in anticipo, ad agosto. E anche un motivo per cambiare un poco le mie abitudini, perché quest’anno abbandonerò il campo: non sarò più il pitching coach del Senago, anche se resto comunque in società. Darò un aiuto a spot, soprattutto alle giovanili, ma dopo tanti anni non avrò più l’impegno fisso della domenica sui campi da gioco. Vedo un attimo come vanno i nuovi equilibri tra lavoro, famiglia e baseball, poi deciderò il mio futuro”.
La prima volta senza campo dopo quanti anni ?
“Beh almeno trenta-trentun anni, visto che ho iniziato a 9 e l’ultimo da giocatore è stato il 2018 con Dave Sheldon manager. Ma subito nel 2019 ho iniziato a fare il coach con la Under 18-serie C”.
Una scelta che ti fa onore, visto che ormai sono sempre meno quelli che, dopo aver smesso di giocare, si dedicano alla carriera di tecnico. Almeno qui in Lombardia…
“Beh nel mio caso è stata una scelta naturale, perché mi sembrava giusto restituire qualcosa a uno sport che, nel bene e nel male, mi ha dato molto. Perché è uno sport che mi ha fatto crescere non solo come giocatore ma soprattutto come uomo. Perché sul campo da baseball mi sono formato anche come carattere. E infatti adesso ai ragazzi, più che il gesto tecnico, voglio proprio trasmettere l’approccio allo sport, cerco di dare un insegnamento mentale e comportamentale, che è la cosa che conta di più. Perché poi se uno cresce con la mentalità giusta, nel nostro piccolo mondo può fare anche strada”.
Ma perché, secondo te, sono così pochi gli ex giocatori che decidono di fare questo passo?
“Non saprei rispondere, credo che dipenda da molti fattori. Per quelle che sono le esperienze più vicine a me, penso che conti molto l’impegno con cui uno ha affrontato l’attività di giocatore: soprattutto ad un certo livello ce ne devi mettere tanto. E così arrivi a un certo punto che sei “full” e per un po’ non vuoi più continuare ad impegnarti. Ma perdi un focus fondamentale, che è quello di tramandare ad altri quello che conosci. Cosa che non è da tutti, mentre è più facile farsi da parte e stare a guardare. Anche se poi c’è anche qualcuno che ritorna…”.
Anche per te giocare era diventato un peso?
“No, però l’impegno c’era. Soprattutto in una categoria come la A2, in cui c’è tanta passione e poco ritorno. Anch’io arrivavo alla domenica sera pensando al lavoro che mi aspettava il lunedì e magari dovevo fare 8 ore di pullman per tornare da una trasferta”.
Allora torniamo indietro di trent’anni: come sei arrivato al baseball?
“Non ho un ricordo chiaro in particolare. Probabilmente l’ho scoperto guardando qualche cartone animato alla tv. E mi ricordo la faccia che fece mio padre, che era stato un calciatore anche a un discreto livello, quando gli dissi che volevo giocare a baseball… Non sapeva nemmeno che sport fosse. Poi, per fortuna, abbiamo scoperto che c’era una squadra proprio qui. E per coincidenza mio padre lavorava con Mario Milani che era stato uno dei fondatori del Senago… E da allora ho passato tutta la mia carriera qui”.
Già, ma c’è una squadra in cui avresti voluto giocare?
“In Italia il Bologna: ho fatto anche un provino per andare da loro, ma non è andata… E poi anche il Milano che venivo a vedere qualche volta al Kennedy negli ultimi anni della Mediolanum. Perché di fatto sono un milanese: quando sono in giro dico che sono di Milano, che è anche la città in cui lavoro”.
Milano che poi hai incrociato negli anni dello United: 138 presenze tra il 2009 e il ’16 con 344 strikeout (9° nella classifica all time rossoblù) in 387,2 riprese lanciate (12° pitcher della nostra storia). Che ricordo hai delle stagioni della franchigia?
“Una gran bella esperienza. Anni in cui ci siamo veramente divertiti. E a quel periodo risale proprio la stagione più bella della mia carriera, il 2010, quando arrivammo ai playoff della A2, purtroppo persi contro il Reggio Emilia, ma poi vincemmo la coppa Italia di A2 in finale proprio contro lo stesso Reggio. Era veramente una bella squadra e abbiamo fatto un bel lavoro, con i ragazzi di Milano e anche quelli di Novara e con un gran pitcher come Renny Duarte”.
E invece la tua partita indimenticabile?
“Non una in modo specifico. Però ricordo un complete game lanciato nei miei primi anni in serie B, sarà stato il 2002, vincendo contro il Padova. Ero ancora un ragazzino e c’era Basilico allenatore. Poi, proprio nel 2010, ricordo una bella vittoria contro il Codogno, una partita giocata sul campo di Novara con due fuoricampo di Silva e di Anedda. E in quell’anno giocai molto bene anche la finale persa con il Reggio per 2-1. Però ho anche un bel ricordo legato alla Nazionale Juniores, quando da rilievo di Maestri vinsi una partita nel torneo premondiale contro gli Usa”.
Nella tua carriera infatti c’è anche un po’ di azzurro, almeno a livello giovanile.
“Sì, ho vinto un Europeo nella categoria Ragazzi nel ’97 a Parma, poi ho fatto anche un Mondiale in Canada con la Juniores”.
Per anni sei stato considerato un utility, visto che lanciavi ma giocavi anche esterno ed eri un discreto battitore.
“Sì, diciamo che ero un lanciatore che poteva giocare anche esterno, perché leggevo bene la palla e avevo un buon braccio, ma come guanto non ero granché…”.
Ma il fatto di aver giocato in entrambi i ruoli non è stato un po’ un limite? A un certo punto non si capiva se eri un pitcher o un esterno…
“Non lo so… diciamo che io mi sono sempre sentito un lanciatore. Poi magari chi aveva l’occhio lungo avrebbe potuto spingermi a giocare esterno…”.
A proposito di occhio lungo: chi è l’allenatore a cui devi di più?
“Tecnicamente Duarte: con lui sono migliorato tanto. E anche quando ho deciso di fare il coach mi sono ispirato a lui. Poi però devo dire che mi sono trovato bene anche con gli altri, da Bonetti a Sheldon, ma con loro ero già “grande” e ho avuto un rapporto da adulto. Da giovanissimo ho avuto anche Gigi Cameroni: ero un ragazzino ma ricordo che mi teneva sul piedistallo. Poi per esempio mi sono trovato molto bene con Clemente Alvarez nel primo anno della franchigia. E con Piero Bonetti che è stato il più manager di tutti: magari non tecnicamente, e non me ne voglia, ma sicuramente per la gestione delle persone”.
Da ragazzo avevi un idolo?
“Nel mio piccolo, quando andavo a vedere la serie A a Parma, mi piaceva molto Betto, di cui poi ho avuto il piacere di diventare amico. E qui a Senago mi piacevano Toffano e Moia”.
Il compagno ideale di tutti questi anni?
“Che domanda! Posso dirtene più di uno? Parlo di quelli con cui sono cresciuto: Milani, Bortolomai, Realini, Sabatino, ma ci metto anche Suardi. Però su tutti devo dire Milani, forse perché era quello meno brontolone. E poi giocavamo assieme in batteria”.
La più grande soddisfazione?
“La prima convocazione nella nazionale Ragazzi: ricordo ancora quando mi arrivò a casa la lettera. Poi direi anche il provino a Bologna. E infine la conquista della coppa Italia di A2 nel 2010, perché anche se avevo la febbre lanciai una gran partita, chiusa poi da Sardo. E ci prendemmo la rivincita sul Reggio Emilia”.
E la delusione?
“Mi do la colpa di non aver saputo leggere qualche opportunità, ma alla fine sono contento anche così. Mi sono divertito…”
Il campo preferito?
“Nettuno negli anni d’oro”
La trasferta?
“Ancora Nettuno”.
La squadra ideale dei tuoi compagni?
“Pitcher Duarte e Andrea Sala, catcher Milani e Anedda, in prima Wong, in seconda Luca Leonesio, in terza Silva perché interbase devo mettere Bortolomai. Esterni Basilico, Realini e Banfi”.
Il miglior pitcher italiano?
“A me piaceva Betto, ma devo dire Riccardo De Santis. Poi Maestri, ma ha fatto grandi cose soprattutto all’estero”.
Il battitore che ti metteva più in difficoltà?
“La mia bestia nera era uno che poi ha giocato anche con me: Freddy Guadagnino”.
I tre personaggi simbolo del baseball italiano?
“Tre che ho avuto la fortuna di conoscere e che, guarda caso, si intrecciano con la storia del Milano. Direi Cameroni, che è una leggenda, Mazzotti, che è un’istituzione, e Bianchi che ho avuto anche come coach allo United: magari ai ragazzi di oggi non dice niente, ma per me era come avere in squadra Franco Baresi…”.
A proposito di Baresi: lo sportivo che ammiri di più al di fuori del baseball?
“Da milanista devo dire Paolo Maldini: come giocatore, come uomo, come dirigente, ha tutto per essere eletto…papa”.
L’evento sportivo che ti ha emozionato di più?
“Il Classic: mi piace molto anche come format. Che emozione soprattutto vedere l’Italia in tv. Se penso all’ultima edizione quando abbiamo passato il turno e siamo andati a Tokyo o quando abbiamo affrontato il Venezuela con gente che ha giocato anche qui, come Bencomo…”.
E il baseball di oggi come lo vedi?
“Tecnicamente la serie A, a parte le poche squadre che hanno i soldi, è di livello piuttosto basso. Non è una situazione rosea, ma non se ne può fare una colpa alla federazione: le difficoltà sono enormi, chiunque sia il presidente. Perché purtroppo il nostro è uno sport complicato per l’Italia, facciamo fatica ad essere considerati. Bisognerebbe fare come il rugby: due-tre eventi all’anno e uno stadio da riempire, magari con un appuntamento come le London series. Altrimenti restiamo sempre uno sport per addetti ai lavori”.