Addio a Ivan Guerci, grande cuore del Milano
Ci ha lasciato a 62 anni il supercapitano rossoblù, il fedelissimo di tutti i tempi. Nessuno ha vestito la nostra casacca più di lui. Ha lottato contro il male per anni e si è arreso questa notte. Lascia un'enorme esempio di attaccamento alla maglia e alla società. E' stato protagonista del Milano dall'82 al 2003 con 718 partite giocate, due coppe Italia, due coppe delle Coppe e una Supercoppa. Ha seguito la squadra fino all'ultima partita. Campione in campo e nella vita, nessuno potrà mai dimenticarlo
Povero Ivan. Purtroppo non ce l’ha fatta più. Sapevamo che uno di questi giorni sarebbe capitato, ma speravamo sempre che fosse domani. E invece dobbiamo parlare della resa di Ivan Guerci. A 62 anni appena compiuti. Alla fine di un calvario di quasi cinque anni, affrontato con coraggio, ottimismo, ma anche realismo. Da quando è stato colpito dal male vigliacco non ha buttato via un giorno. Ha lottato come faceva in campo, lasciandoci un grande esempio. Forse proprio grazie al suo coraggio è riuscito ad arrivare fino a qui: solo l’ultima botta, a settembre, l’ha costretto a ritirarsi. Ma dal letto di ospedale e poi di casa ha sempre cercato di guardare avanti, di partecipare, di seguire tutto.
Ha lavorato fino in fondo, anche quando faceva fatica ad uscire, perché si sentiva in dovere verso la famiglia, la moglie Barbara e i due figli che l’hanno accompagnato con amore fino all’ultimo: Aurora, che Ivan ha sempre accompagnato con animo protettivo, e Samuele, in cui rivedeva la passione sportiva seguendolo sui campi di calcio. E’ venuto l’ultima volta al Kennedy il primo di settembre, ultima partita in casa contro la Crocetta: non ha mai lasciato il suo Milano fino in fondo. Perché Ivan era anche questo, perché il baseball e il suo club li aveva nel sangue. Come la pesca, la sua altra grande passione.
In fondo Ivan ci diceva sempre che il Kennedy era la sua seconda casa e appena poteva ci faceva un salto. E quando aveva capito che stava male ce l’aveva detto con un’immagine sportiva: “Tra un po’ dovrò andare in mezzo al campo e salutare…”. E purtroppo è arrivato il momento che, assieme a lui, cercavamo di allontanare il più possibile.
Ma è difficile raccontare Ivan in chiave triste, perché lui è sempre stato il simbolo dell’allegria. E noi dobbiamo ricordare Ivan per quello che ha rappresentato per il Milano. Perché pochi altri, come lui, hanno incarnato lo spirito della nostra squadra. Non a caso è il simbolo della fedeltà a questa maglia, il giocatore che l’ha vestita più volte: 718 partite solo di campionato più le coppe varie, 2426 turni alla battuta, 741 battute valide, 23 fuoricampo, leader in quasi tutte le classifiche di squadra, tra il 1982 e il 2003. In questo momento potrebbero sembrare solo aride cifre, ma dietro questi numeri c’era tutto il suo orgoglio, il suo senso di appartenenza, “perché – diceva – questa resta comunque una delle squadre più titolate d’Italia e d’Europa. Io ho raggiunto questi traguardi perché ho avuto la fortuna di giocare in stagioni in cui si disputavano tre partite a settimana, ma anche perché ho avuto sempre una passione smisurata e ho vissuto per anni a pane e baseball”. Da quando arrivò dall’Inter Mars, accompagnato da suo padre Gino, altra colonna indimenticabile della nostra società, accolto come il rookie in un gruppo di giocatori più esperti e navigati, che però ben presto si accorsero del valore di questo ragazzo che nel giro di poche partite convinse Carlo Passarotto a dargli un posto da titolare in quel Milano che dominò il campionato di A2 e si riprese il posto tra le big. Poi una carriera in crescita costante, grande esterno, sorretto da ottime gambe e buon braccio, apprezzabile anche in battuta: passando per la Cei e la Bkv, diventò una delle pedine fondamentali della grande Mediolanum di Mazzotti e la prima coppa delle Coppe, a Skelleftea, in Svezia, gli regalò il momento più magico della carriera, quando andò a colpire la valida che ribaltò la partita all’ultimo inning regalando a tutti la gioia del trionfo sul Rotterdam.
Soffrì il traumatico scioglimento di quella squadra, di cui era diventato capitano, nel ’94, ma si rimboccò le maniche convincendo anche altri ad aiutare il Milano a risalire. Non si fece problemi a scendere in terza serie, perché il Milano aveva bisogno anche di lui e nel ’97, con Paolo Re in panchina, festeggiò sul campo la promozione in serie A, vivendo ancora un’effimera parentesi tra i grandi nel ’98. Poi un’altra crisi societaria, la fusione con l’Ares, ancora la B, la A2, e lui sempre lì fino a quarant’anni, trasformato in prima base ma sempre temibile con la mazza. Persino una breve esperienza da allenatore, dopo le dimissioni di Borroni a metà stagione, nel 2002. E ancora una sporadica apparizione in campo nel 2003 per dare una mano a Raoul Pasotto, l’amico fraterno di sempre, a far risalire ancora una volta il Milano dalle serie minori.
Gli mancò lo scudetto, ed era il suo grande rimpianto, così come non entrò mai nel giro della Nazionale, che forse avrebbe meritato né più e né meno di altri che, pur non essendo fenomeni, ebbero quella soddisfazione. Ma non se ne fece mai un problema, consapevole di certe gerarchie. E non ne fece mai motivo di polemica, lui che di quest’arte era maestro, soprattutto negli ultimi anni, brontolone bonario ma sempre critico. Perché avrebbe voluto rivedere il Milano dei suoi tempi e spronava i giocatori di oggi ad impegnarsi come faceva lui. “Il Milano è una famiglia, ma anche un modo di vivere”, disse rivolto ai più giovani, quando venne a ritirare il premio Donnabella del 2020.
Negli ultimi anni seguiva spesso anche gli allenamenti, pur non potendo contribuire fisicamente, si era messo persino qualche volta al servizio delle giovanili, ed era anche molto critico con chi non vedeva in campo come avrebbe voluto. Da vecchio capitano aveva messo nel mirino un giocatore che ricopriva i suoi stessi ruoli, ma poi quando le statistiche lo smentirono, fu il primo a mandargli un whatsapp di complimenti, con tanto di scuse. E in fondo la promozione in A dello scorso anno, quando era già malato, la prese come un grande regalo e la festeggiò al Kennedy con la squadra, certo che ci sarebbe stato un futuro. Se non per lui, almeno per il suo vecchio Milano.
Addio Ivan, preferiamo pensare a quanto ci hai fatto divertire, in campo e fuori. Chi ha vissuto con te più di quarant’anni non può che ringraziarti per il tempo passato insieme, per quello che ci hai dato e per quello che avresti potuto darci ancora.
Un abbraccio forte da tutto il Milano a Barbara, Aurora, Samuele, al fratello Sandro e alla signora Ivana, che come tante mamme del baseball ha contribuito fattivamente, in anni ormai lontani, ad accompagnare la passione di figli e mariti.