Milano 1946

Sheldon, 60 anni di un giramondo vincente

Nove squadre da giocatore più due da manager, quattro scudetti, una coppa Campioni, due promozioni, un'Olimpiade e anche una stagione straordinaria a Milano, terzo giocatore della nostra serie A per partite giocate, David Sheldon da californiano è ormai diventato un pezzo di storia del nostro baseball: "Sono qui da 35 anni, di fatto sono più italiano che americano. E qui il baseball mi ha dato tantissimo, a partire dalla famiglia. Ho conosciuto mia moglie grazie a una partita rinviata per pioggia. E ho potuto giocare fino a 47 anni. Ho cominciato a vincere tardi, ma 4 scudetti con tre squadre, Rimini, Bologna e San Marino, non sono pochi. Spero di aver insegnato qualcosa, anche con i miei difetti. Bindi e Mazzotti gli allenatori a cui sono più legato. Cretis e Liverziani i più grandi. Che ricordi il cycle battuto nel Milano contro il Parma e le due finali col Rimini contro Nettuno. A Milano ci sono passato due volte: peccato che quando finalmente mi chiamò la Mediolanum, chiusero la polisportiva...".


E’ un pezzo grosso del nostro baseball. Che abbiamo avuto l’onore di avere con noi come giocatore, anche se per una sola stagione, e poi ancora come tecnico delle giovanili per un breve tempo, quando ha deciso di appendere il guanto al chiodo e iniziare la sua seconda carriera. In campo è stato anche un grande vecchio, visto che ha smesso a 47 anni, giocando sempre ad altissimo livello, ma oggi taglia un traguardo importante pure nella vita, visto che soffia su 60 candeline. Stiamo parlando di David Sheldon, giocatore e allenatore che può essere considerato a ragione una leggenda del baseball italiano, anche se è nato a Kentfield, California, periferia di San Francisco, il 13 maggio del ‘63. Se non altro per le cifre pesantissime della sua carriera, culminata con la partecipazione all'Olimpiade di Sydney 2000, e divisa tra tante squadre, da Firenze a Bologna, da Novara a Bollate, da Grosseto a Milano, da Rimini a San Marino: 1065 partite in serie A1, superato solo da De Franceschi e Ceccaroli, 5° di ogni tempo nella classifica dei punti battuti a casa (850, alle spalle solamente di Bianchi, Carelli, Trinci e Bagialemani), 8° nei fuoricampo (142) come nei punti segnati. Una parte di questi numeri costruita anche a Milano, nel 1998, stagione in cui, oltre a giocare da interbase, si rende ancora utile come rilievo, lui che è stato uno dei grandi jolly arrivati dall’America negli anni Ottanta, capace di giocare due partite da shorstop e una sul monte, come i D’Ercole e i Mitchell, tanto per citarne due passati anche da Milano, tutti eredi del grandissimo Mike Romano, ma pure di Carlito Passarotto. In rossoblù Sheldon gioca 46 partite di campionato con uno stratosferico 438 di media battuta e 19 homer, con cui sfiora il record di Bonfonte di 21 fuoricampo battuti in una sola stagione nel Milano. Ma è utilissimo anche nella nostra ultima avventura europea, trascinando i rossoblù in finale di coppa delle Coppe a Zagabria con un rilievo-salvezza nella semifinale contro Bologna. In una sfida di campionato contro il Parma al Kennedy, diventa invece il terzo e ultimo battitore della nostra storia (dopo Gandini e Goldstein) a battere un cycle contro Parri, Betto, Ceccaroli e Fochi che si alternano sul monte emiliano in quella partita.

Poi va a chiudere in crescendo la carriera, centrando ben 4 scudetti (2 a Rimini, uno a Bologna e uno a San Marino) e una coppa dei Campioni sempre con San Marino, prima di raccogliere soddisfazioni anche da manager, vincendo due campionati di serie A2, prima con il Bollate e poi con il Senago, che porta alla sua prima storica promozione in A1. Da un paio d’anni, però, Sheldon ha deciso di farsi da parte, tormentato anche da qualche guaio fisico, ormai fortunatamente superato.

E oggi, caro Dave, festeggi i 60 anni. Ma quanti da italiano?

“Beh, sono arrivato nell’87 e sono qui fisso dall’89: sono 35 anni. Diciamo che ormai sono più italiano che americano…”.

Come vivi questo compleanno speciale? Ti sei messo alle spalle i problemi che ti avevano fatto smettere di allenare?

“Sì, sto bene, mi sono ripreso bene e non mi posso lamentare. Certo, l’età si sente e quello che facevo dieci anni fa, adesso faccio più fatica a farlo. Ma ho smesso più che altro per una questione mentale: stava diventando pesante gestire il lavoro più gli allenamenti e non puoi svegliarti al mattino con il pensiero di dover andare al campo alla sera, viverlo solo come un impegno. Non può essere così, altrimenti questa sensazione la trasmetti alla squadra. C’è una cosa che mi diceva Mauro Mazzotti e mi è sempre rimasta in testa: non puoi nascondere la tua mancanza di voglia, perché i giocatori se ne accorgono subito. Se non dai il cento per cento, meglio smettere. L’ho verificato di persona e devo dire che è stato un buon consiglio. Poi, non è detto che in futuro possa anche tornare a fare qualcosa, ma adesso, dopo 8 ore di lavoro, è difficile”.

Non ti chiedo come hai scoperto il baseball, ovviamente, ma ricordi come hai cominciato?

“Come tutti gli americani: c’è sempre qualcuno che ti mette una pallina in mano, come qui ti mettono un pallone tra i piedi. Devo dire che il ricordo più lontano ce l’ho con mia nonna: avrò avuto tre o quattro anni ed è stata lei la prima a farmi giocare: aveva vissuto a lungo a St.Louis e a Chicago ed era diventata una grande tifosa di baseball. Poi, come tutti i ragazzi americani, ho fatto molti sport, ho giocato a basket e a football, ma il baseball è stato sempre la mia prima passione”.

Che cosa ti ha dato, invece, il baseball italiano?

“Per prima cosa mi ha dato una bella famiglia (con tre figli, Kelly, Bryan e Melany, tutti e tre giocatori, ndr). Mia moglie, anche lei giocatrice di softball (Simona Meroni, ex Bollate e Caronno, ndr), l’ho conosciuta proprio grazie al baseball. Quando ero nel Firenze, nell’88, siamo venuti a giocare un turno di intergirone, come si faceva allora, tra Milano, Bollate e Novara e la partita del sabato in programma a Bollate venne rinviata per pioggia. Così la partita venne recuperata qualche settimana più tardi e proprio in occasione di quel recupero conobbi Simona, che era venuta a vederci, grazie a Jay Palma che era mio amico e giocava a Bollate. Dopo la partita mi fermai un paio di giorni da lui ed ebbi modo di incontrarla ancora, di uscire, di scambiarmi il numero di telefono e da lì è nato tutto. Se avessimo giocato regolarmente quel sabato, lei sarebbe andata al softball, non ci saremmo mai visti, io sarei ripartito per Firenze e sarebbe stata tutta un’altra storia…”.

Insomma, quando piove ce la prendiamo sempre, e invece qualche volta serve…

“Devo dire proprio di sì… Comunque, a parte la famiglia, il baseball italiano mi ha dato modo di giocare quasi da professionista fino a 47 anni. I primi dieci senza grandi successi, almeno a livello di squadra, poi, dopo Milano, Mazzotti mi ha portato a Rimini e da lì è cominciata la mia carriera vincente: subito uno scudetto e poi altri tre più una coppa dei Campioni. Quattro scudetti vinti con tre squadre diverse: non è da tutti…”.

E tu cosa pensi di aver dato al baseball italiano?

“Beh dovrebbe dirlo qualcun altro… spero almeno di aver dimostrato in che modo si deve giocare a baseball, che approccio avere: qualità, serietà e rispetto degli avversari. E spero che i giovani che hanno giocato con me, o chi mi ha visto da fuori, abbia ricevuto un insegnamento in questo senso. Ma anche, visti i miei tanti difetti, abbia capito che cosa non si deve fare”.

Tu hai girato veramente tante squadre, ma ce n’è una a cui sei rimasto più legato?

“No, e non lo dico per diplomazia… Forse Bologna leggermente più delle altre, perché mantengo tuttora buonissimi rapporti con Radaelli e con altri ex giocatori, ma in genere, escluso Novara, mi sono trovato bene con tutti”.

Che ricordo hai del tuo anno a Milano?

“Una delle mie stagioni statisticamente migliori. La squadra non ha avuto grande successo, ma per me è stata una stagione molto positiva. Ricordo che con me c’era Newman, un tipo particolare, ma che mi assomiglia molto per approccio al baseball. Magari da avversario non lo sopporti, ma quando te lo trovi come compagno di squadra lo apprezzi molto. Ma c’erano anche tanti giovani a cui spero di aver lasciato qualcosa. E poi, dopo l’anno di Bollate in A2 nel ’94, ero tornato a giocare a casa: abitando qui, questa era una cosa che contava molto… Finalmente un anno in cui potevo allenarmi sempre con la mia squadra, a casa mia, senza viaggiare”.

Già, perché tu di viaggi ne hai fatti tanti: hai mai contato quanti chilometri hai fatto per giocare?

“Ah, sarebbe interessante… se pensi quante volte sono andato avanti e indietro da Grosseto, da San Marino, da Rimini, tanto per citare i posti più lontani. Quando giocavo mi chiamavano Weekend warrior… “.

Ti ricordi il tuo debutto in Italia?

“In campionato onestamente no, ma la prima partita con il Firenze sì: era un’amichevole contro il Grosseto. E per loro lanciava Rolando Cretis”.

Ma avrai sicuramente una partita indimenticabile.

“Beh, tante. Solo per tutti gli anni in cui ho giocato… Me ne viene in mente qualcuna: per esempio, restando al Milano, quella in cui ho fatto il cycle in una partita vinta contro il Parma al Kennedy. Indimenticabile… E poi tutte quelle che mi hanno portato dei titoli, a partire dalla terza finale del 2000 con il Rimini a Nettuno in cui feci due fuoricampo ed andammo sul 3-0 nella serie. O gara sette del primo scudetto, sempre a Rimini contro il Nettuno, in cui Mauro mi chiamò ancora a lanciare all’ultimo inning: salii al posto di Urbani che eravamo sopra di uno, ma a basi cariche e zero out. Riuscii a fare due eliminazioni senza prendere punti, poi un singolo ribaltò la situazione ed entrarono due punti per loro. Riuscii a chiudere l’inning sotto di uno e poi vincemmo noi nell’ultimo attacco, così statisticamente fui anche il lanciatore vincente della bella. In cui, oltre tutto, avevo chiuso a 5 su 5 nel box. Niente male…”.

E la partita da dimenticare?

“Tante anche queste, ma la mia scarsa memoria, per fortuna, me le fa proprio dimenticare… Forse le peggiori sono legate un po’ al mio comportamento, perché, soprattutto da giovane, mi accendevo facilmente… Ricordo una volta, quando giocavo a Grosseto, in cui persi la testa con l’arbitro e venni cacciato fuori”.

Chi è l’allenatore, qui in Italia, che ti ha dato di più?

“Devo dirne due: Doriano Bindi e Mauro Mazzotti. Molto diversi tra loro, in campo e fuori, ma sono legato ad entrambi”.

Ti chiedo il compagno ideale, anche se mi rendo conto che in tanti anni e in tante squadre, è veramente difficile sceglierlo…

“In genere mi sono trovato bene con tutti. Forse ti direi Claudio Liverziani e Rolando Cretis, due sempre concentrati, due che non reagivano mai negativamente anche quando erano sotto stress”.

Da ragazzo avevi un idolo?

“Willie Mays, il più grande. Se non avesse giocato in quel campo, a San Francisco, avrebbe fatto lui il record dei fuoricampo. Senza nulla togliere ad Hank Aaron, ma ad Atlanta le palline viaggiavano come aerei”.

Il tuo campo preferito in Italia, invece?

“Grosseto, ai tempi. Per il pubblico e per il terreno splendido”.

E la trasferta?

“Sempre Grosseto. Mi piaceva giocarci anche da avversario, forse perché conoscevo tanta gente. A Grosseto sono stato un po’ di casa fin da quando sono arrivato in Italia, perché in squadra con me a Firenze c’era Marcello Verni, e dopo anche Luca Luongo, che spesso dopo le partite mi portava un paio di giorni a casa sua a Grosseto, anche per stare un po’ al mare. E con lui ho conosciuto parecchia gente. Poi ci ho anche giocato…”.

Hai giocato in tantissime squadre, ma ce n’è una che ti manca? Una in cui ti sarebbe piaciuto andare?

“No, direi proprio di no”.

Con tutti i compagni che hai avuto è difficile scegliere una squadra ideale. Ma ti va di provarci lo stesso?

“Sì, ma la farei solo di italiani. Sul monte Cretis con Cabalisti rilievo. Catcher Gambuti, in prima Matteucci, in seconda Dallospedale, in terza io oppure Gianmario Costa, interbase Evangelisti, a sinistra Liverziani, al centro Mazzieri e a destra Rigoli. Designato Lele Frignani”.

Non male. E il miglior lanciatore italiano, secondo te?

“Cretis, anche per la durata della sua carriera”

E lo straniero?

“Eichhorn, che ha giocato con me nelle Calze Verdi e nella Fortitudo, con cui giocammo una finale contro il Rimini. Aveva due lanci: un sinker naturale e uno slider, ma gli bastavano. E poi una persona squisita”.

Il miglior battitore italiano?

“Claudio Liverziani. Ho visto poco Carelli, e Bianchi ha giocato poco con le mazze di legno. Non che potesse essere in difficoltà, ma so quanto batteva Liverziani anche con il legno”.

Il battitore straniero?

“Non uno in particolare. Potrei dirti Vatcher del Rimini”.

Tra i lanciatori avevi una bestia nera? Uno che non avresti mai voluto affrontare?

“Tanti, ma ci sta… Contro Matos, ad esempio, non so se sono arrivato a 100 di media battuta, però il caso ha voluto che battessi proprio su di lui la mia millesima valida. E uno che non è considerato tra i big, ma mi dava sempre un sacco di problemi, è ad esempio Luca Martignoni”.

E da lanciatore chi ti dava particolarmente fastidio?

“Posso dire Stimac: io allora tiravo forte, ma per un ex Major come lui, cosa volevi che fosse… E poi ricordo Dario Borghino, ma quel Grosseto aveva veramente tutto un line up difficile”.

Se dovessi dirmi, invece, i giocatori più rappresentativi del Milano?

“Direi Fraschetti, Radaelli, Peonia, tutta la vecchia guardia di quella Mediolanum”.

Una Mediolanum che tu hai solo sfiorato, perché non appena sei stato ingaggiato, nel ’94, hanno chiuso la polisportiva…

“Veramente, non farmici pensare… anche perché abitavo qui e per me sarebbe stato il massimo. Senza contare che magari avrei guadagnato anche qualche soldo… E pensare che ogni anno prendevano un interbase diverso, da Morrison in avanti. E io sono stato l’ultimo: quando finalmente Mazzotti ha pensato a me, era troppo tardi”.

Abbiamo parlato tanto di te come giocatore, ma qualche soddisfazione l’hai avuta anche da allenatore, con Bollate e con Senago…

“Beh sì, a Bollate soprattutto abbiamo vinto un campionato di A federale con una squadra giovanissima, praticamente tutti amici e coetanei di mio figlio. Quando li ho presi in mano ho cominciato a plasmarli e devo dire che alla fine è arrivato un bel risultato. Anche la promozione con il Senago è stata bella, ma lì avevo giocatori già formati, molti dei quali provenienti proprio da quel gruppo bollatese che aveva iniziato con me”.

Secondo te chi sono i tre personaggi simbolo del baseball italiano?

“Non so, non è una domanda da fare a me. Dovrebbe dirlo qualcuno che vede le cose da fuori”.

C’è uno sportivo che ti è sempre piaciuto in modo particolare?

“Larry Bird. Dal punto di vista atletico quasi zero, ma un cervello straordinario. Uno che ha vinto tre MVP di fila nella Nba…”.

C’è un evento sportivo che ti ha emozionato in modo particolare?

“Il Superbowl, ogni anno. Mi prendo sempre il lunedì di ferie per poterlo seguire tutta la notte. Però mi piacciono molto anche le finali del basket NCAA, in genere seguo tutto lo sport americano, anche per questo mia moglie si lamenta sempre… Invece devo dire che un evento a cui mi piacerebbe assistere, anche se non sono un appassionato di cavalli, è il Kentucky Derby. Dev’esserci un’atmosfera molto particolare…”.

E sei tifoso di qualche squadra?

“Tutte quelle di San Francisco, la mia città: Giants, 49ers e Warriors. E devo dire di essere fortunato ad aver tifato per squadre vincenti”.

Un po’ come te, Dave… Auguri

 

Sulla nostra pagina facebook la fotogallery della carriera di Dave Sheldon: https://www.facebook.com/photo/?fbid=721227990005500&set=pcb.721229146672051

 

13/05/2023
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