Milano 1946

Bancora, 200 partite e una promessa
"Dobbiamo tenere il Milano a questi livelli"

Il capitano rossoblù si racconta dopo il traguardo delle 200 presenze nel club: "La cosa più bella è averle raggiunte al rientro dall'infortunio: quando stai fermo capisci veramente come è bello giocare. Ho iniziato in questo club dal minibaseball e mi ha sempre affascinato la storia del Milano. Dobbiamo un grande rispetto a chi l'ha costruita e abbiamo l'impegno di continuarla ai massimi livelli. Devo tanto a Renny Duarte che mi ha lanciato, ma con Fraschetti abbiamo fatto tanta strada assieme e mi ha insegnato la mentalità giusta. Mi saprebbe piaciuto vederlo giocare. Marco Pasotto il compagno di una vita, Omar Bencomo il più grande con cui ho giocato: un'emozione stare in spogliatoio con lui. Il futuro? Vorrei un Milano che possa lottare per i playoff"


Rossoblù dalla nascita. Si può dire quasi così di Nicola Bancora, 26 anni, capitano del Milano dal 2017, l’anno dell’ennesima ripartenza, arrivato a tagliare il traguardo delle 200 partite con la nostra maglia, 32° giocatore della storia a raggiungere questa soglia di fedeltà al club. E terzo tra quelli in attività dopo Marco Pasotto e Andrea Lo Monaco. Una bella soddisfazione per un ragazzo cresciuto nel nostro vivaio fin da bambino e arrivato alla maturità sportiva con un grande senso di appartenenza al Milano. La 200esima è arrivata sabato scorso a Verona, quando è entrato al 6° inning al posto del dh Ambrosioni ed è poi andato a difendere il cuscino di terza. Una presenza ancora a mezzo servizio, dopo l’operazione ai legamenti del ginocchio che l’ha tenuto fermo a lungo a dalla quale sta recuperando proprio adesso.

“Duecento partite sono una bella soddisfazione – sorride Nicola – e mi fa molto piacere averle giocate tutte per la società che mi ha accolto da bambino e che mi ha permesso di fare lo sport che amo. Può sembrare anche un piccolo traguardo, ma per me è molto significativo, anche perché arriva al termine di un lungo lavoro di recupero dopo l’infortunio e l’operazione. L’obbiettivo era quello di rientrare nei tempi indicati e sono contento di averli rispettati senza forzare. E la coincidenza tra il rientro e le 200 presenze rende questo momento ancora più bello. Gli infortuni d’altra parte servono anche a farti capire quanto sia bello vivere le partite: una cosa che dai sempre per scontata e invece dovresti apprezzare molto di più”.

Torniamo indietro di 200 partite: ti ricordi il tuo debutto in prima squadra nel 2014?

“Certo, a Parma con la Crocetta. Renny Duarte, che allora allenava lo United, mi ha fatto entrare al 7° inning di una partita che stavamo conducendo e poi abbiamo vinto. Certo, ero molto emozionato, ma mi ricordo una cosa divertente: il nostro pitcher Andrea Sala, vedendo che ero un po’ teso, per sdrammatizzare cercava di confondermi facendo finta di mettersi d’accordo con me per giocare un doppio gioco anche se non c’era nessuno sulle basi… un modo per stemperare la tensione e farmi godere la giornata”.

A proposito di United: come è stata per te quella esperienza?

“Fondamentale. Perché mi ha dato l’opportunità di allenarmi e di giocare con giocatori che erano abituati da anni a quel livello. Tanti compagni che avevano conoscenza di questo sport e ti insegnavano anche come dovevi vivere lo spogliatoio. Tutte cose che poi io ho cercato di portare nel Milano ripartito dalla serie C nel ’17, insieme agli altri compagni che avevano vissuto con me quegli anni nello United, come Enrico Malli e Vialetto, poi ci hanno raggiunto anche Marco (Pasotto, ndr) e Andrea (Lo Monaco, ndr)”.

E così sei diventato il capitano del Milano…

“Sì, ricordo benissimo il colloquio con Fraschetti e il presidente durante l’inverno nella palestra del Marie Curie, in cui mi spiegarono le intenzioni di ripartire dalla C e mi chiesero la disponibilità a far parte del progetto. Mi chiesero di tornare e io non ho avuto dubbi, così Fraschetti mi ha detto che sarei stato il capitano della squadra”.

E da capitano devi anche rapportarti con la storia di questo club…

“Certo, che è poi quella che rende riconoscibile il Milano. Ma che dà una responsabilità in più a noi giocatori e a me che sono il capitano. Basta guardare le foto storiche appese in sede per capire quanto lavoro c’è stato dietro questa società. E quanto rispetto bisogna avere per chi l’ha fatto. E noi adesso abbiamo il dovere di mantenerla a questo livello che le compete per tradizione”.

A proposito di storia del Milano, qual è l’aspetto che ti colpisce di più?

“Intanto il fatto che sia la società più antica del baseball italiano, una cosa che mi ha sempre colpito particolarmente, fin da bambino. E poi mi affascina il discorso delle coppe europee, perché gli scudetti sono certamente prestigiosi, ma appartengono a un ambito nazionale, che ho potuto anche conoscere, giocando in serie A seppure non a quei livelli. Invece la dimensione internazionale è una cosa che per noi è assolutamente lontana. E questo ti fa capire che il fatto di aver assaporato la serie A non può bastare a questa società, che deve rimanerci in pianta stabile. E per questo la palla passa a noi…”

Dalla storia del Milano alla tua storia personale: come sei arrivato al baseball?

“Grazie a un’amica di famiglia, Silvia Regazzi (ex tecnico del softball rossoblù, ndr). I miei genitori volevano che provassi a fare qualche sport e Silvia ci suggerì di provare il baseball al Kennedy, con il Milano. E così a 6 anni ho iniziato dal minibaseball e sono ancora qui. Senza contare che poi ho coinvolto anche mia sorella, che ha 6 anni meno di me”.

Chi è stato il tuo primo allenatore?

“Vittorio Bacio, di cui ho un bellissimo ricordo. E’ stato il primo a insegnarmi qualcosa, sarà stato il 2003-04…”.

E l’allenatore che ti ha dato di più?

“Renny Duarte è stato quello che mi ha fatto debuttare ed è stato il professionista di più alto livello con cui ho lavorato. Sentimentalmente però quello a cui sono più legato è Marco Fraschetti, con cui siamo ripartiti dalla serie C e abbiamo fatto un percorso lungo e faticoso per tanti anni. E Marco mi ha trasmesso la cultura del lavoro e del risultato. L’importanza di essere consistenti, una parola che ripete spesso e che è quasi un suo motto”.

C’è una partita indimenticabile tra queste 200?

“Sì, una giocata a Paternò il primo anno in cui sono entrato stabilmente in prima squadra. Mi ricordo che fu una giornata ostica, perché partimmo all’alba da Milano e in Sicilia trovammo un tempo pessimo, tanto che l’aereo ebbe anche difficoltà ad atterrare. Quel Paternò era forte, credo fosse in testa al girone, mentre lo United lottava per la salvezza. Ma nonostante questo vincemmo 2-0 una partita chiusissima che forse è stata la mia miglior partita perché feci 2 su 3 in battuta ma soprattutto una gran presa in tuffo… Mi ricordo che la gente stava già esultando perché poteva essere la valida che girava la partita e invece io evitai la rimonta”.

Il compagno di squadra a cui sei più legato?

“Marco Pasotto, perché siamo stati sempre insieme. Dalle giovanili allo United, alle ultime stagioni. Mi spiace solo che giochiamo in due reparti diversi, io interno e lui esterno, e così anche in allenamento siamo sempre in gruppi diversi. Dividere così tanto tempo con una persona che rispetti e con cui ti trovi bene è una fortuna, che non è detto che si abbia sempre nello sport”.

Invece il compagno più forte con cui hai giocato?

“Omar Bencomo: ricordo che era venuto da noi dopo l’incidente che aveva avuto in Venezuela e che gli impedì di andare nei pro’ con cui aveva già firmato. Però qui ha fatto vedere di essere di un altro livello, tanto è vero che qualche anno dopo l’abbiamo rivisto al Classic proprio contro l’Italia. Io in quella stagione ero giovanissimo e ricordo sinceramente che più che da compagno, lo vedevo da tifoso che ammirava il campione. Però solo il fatto di condividere lo spogliatoio con lui è stato emozionante. Da giocatori così impari l’attitudine, la professionalità…”.

E dei giocatori del passato del Milano c’è qualcuno che vorresti veder giocare? O che ti piacerebbe avere in squadra oggi?

“Forse proprio Fraschetti, perché mi ha sempre colpito la sua mentalità da allenatore e mi sarebbe piaciuto vedere come la metteva in campo. Anche perché so che ha sempre giocato in squadre importanti, con grandi giocatori americani…”.

C’è un sogno per il futuro della tua carriera?

“Arrivare a giocare con il Milano a un livello più alto, magari avere la possibilità di lottare per entrare nei playoff. Insomma un livello al quale il Milano è stato per tanti anni”.

E questa stagione come la vedi?

“Sono ottimista, perché ho una sensazione diversa da quella del 2021. Ma vado cauto, perché per mantenere questo livello bisogna dare molto più di quello che eravamo abituati a fare. Ci stiamo impegnando molto, ma sappiamo anche che per una buona resa l’impegno non basta, servono sempre concentrazione ed efficacia”.

E il tuo futuro personale?

“Mi auguro che queste siano state solo le prime duecento partite…”

24/05/2024
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